Mentre nelle applicazioni domestiche l’audio digitale ha manifestato il suo strapotere sull’audio analogico già sul finire degli anni ottanta, nel professionale sino a poco tempo fa esistevano ancora isole felici per gli analogisti, luoghi ove qualcuno di loro riusciva ancora a nascondersi. Oggi che analogici sono rimasti solo il microfono e l’altoparlante, bisogna fare di necessità virtù, e allora, tutti a scuola!
Il bit questo (s)conosciuto
Il bit è un numero e come ogni numero che si rispetti serve a contare. Del resto, bit è la abbreviazione di cifra binaria, infatti:
\[ \textbf {BI}\mathrm {nary}\ \mathrm {digi}\textbf {T} \]
Per molti siamo daccapo. Cosa vuole dire “cifra binaria”? Guardiamo sul vocabolario alla voce “binario”. Lasciando perdere implicazioni tramviero-ferroviarie, uno dei significati di maggiore interesse nella fattispecie è il seguente:
\[ “Riferito\ ad\ un\ sistema\ di\ numerazione\ a\ base\ 2”. \]
Peggio che andar di notte, a fari spenti e con la luna che mostra beffardamente il suo lato scuro. Non disperiamo e proseguiamo il nostro ragionamento. Il sistema di numerazione a noi più familiare, quello decimale, ha base 10, ovvero fa uso di 10 cifre diverse:
\[ 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8\ e\ 9 \]
Ogni numero che possiamo immaginare, piccolo o grande che sia, è niente altro che una combinazione di tali cifre, che ovviamente possono essere tutte presenti o meno, una o più volte. E la fantomatica numerazione a base 2? A questo punto anche le scimmie dovrebbero avere intuito che un tale sistema è basato su 2 cifre diverse, ovvero:
\[ 0\ e\ 1 \]
Queste sono dunque le cifre binarie, o bit, di cui sopra. Alleluia, è nato Salvatore.
Cosa me ne faccio dei bit?
Adesso che sapete a grandi linee in cosa consiste un sistema di numerazione a base 2, sareste disposti ad adottarlo in sostituzione di quello a voi più consono, il sistema con dieci cifre? Valutiamo la questione, sapendo che resistere all’innovazione è come trattenere il respiro, alla fine si può morire. Se tutto ciò che devo numerare avesse due sole alternative, vedi ad esempio le posizioni di un interruttore che comanda l’accensione di una lampada, allora i due sistemi di numerazione sarebbero equivalenti perché in entrambi i casi mi basta una cifra, diciamo 0 per l’interruttore aperto (lampada spenta) e 1 per l’interruttore chiuso (lampada accesa). In tal caso, il sistema binario è però più efficiente in quanto sfrutta al massimo le sue potenzialità, mentre con il sistema decimale lascio inutilizzate ben otto cifre. Se la vita di un essere umano fosse fatta solo di sì e di no, il sistema binario sarebbe quanto basta. Ma se invece di uno le lampade con interruttore annesso fossero due? Non ci vuole molto per risalire al numero delle combinazioni possibili, come risulta dalla seguente tabella
Lampada 1 | Lampada 2 |
spenta | spenta |
accesa | spenta |
spenta | accesa |
accesa | accesa |
Un numero a un bit non è più sufficiente, ne servono due. Infatti, con un numero binario a 2 cifre ho a disposizione proprio 4 combinazioni differenti:
\[ 00, 01, 10\ e\ 11 \]
che si leggono rispettivamente zero zero, zero uno, uno zero (non dieci!) e uno uno (non undici!). D’altra parte, con il sistema decimale mi basta ancora una sola cifra, potendo ad esempio numerare le quattro combinazioni con i numeri 0, 1, 2 e 3. Lascio sei cifre inutilizzate? Sì, ma almeno non devo ricorrere a numeri a doppia cifra. Meglio dunque il nostro, affezionatissimo, modo di contare.
Prima conclusione:
L’uomo può fare (volentieri) a meno del bit.
Mettiamoci ora nei panni di una macchina con tanti interruttori che comandano quel che si vuole, l’accensione di lampadine, l’apertura di una porta, eccetera. Ogni interruttore “ragiona” in binario, o è aperto o è chiuso. Per descrivere il suo funzionamento bastano uno 0 ed un 1. Insegnargli a contare in decimale è opera ardua e non particolarmente vantaggiosa. Ecco allora che si svela la più recondita ragione dell’esistenza del digitale:
\[ \mathrm {La\ macchina\ preferisce\ il\ bit} \]
Conseguentemente, l’uomo, che è il creatore ed il padrone della macchina, deve sapersela cavare anche in un oceano di bit.
Analogico e digitale
Analogico e digitale sono due termini che nell’Audio come in altri campi sono divenuti alquanto ricorrenti. Non tutti però ne conoscono appieno significato ed implicazioni, così abbiamo l’ardire di credere che non sia tempo perso spendere qualche parola di chiarimento in merito. Il suono, qualunque suono, è il prodotto dello spostamento della massa d’aria che avvolge la sorgente che lo ha generato (fig. 1).
In genere, più grande è per così dire la parte “attiva” della sorgente, ovvero quella cui è direttamente attribuibile la produzione del suono, più bassa sarà la minima frequenza generata. In altre parole, più cospicua è la massa d’aria messa in movimento, più il suono sarà caratterizzato da componenti di frequenza bassa. A sua volta, lo spostamento di una massa d’aria determina una variazione, sia pur minima, del valore di pressione atmosferica. Niente paura, per far piovere ci vuole ben altro. Difatti, anche nel caso di un suono particolarmente intenso, la pressione atmosferica è sempre svariate migliaia di volte maggiore del contributo di variazione apportato dallo spostamento d’aria. Distinguiamo allora i termini: quando si parla di pressione statica ci si riferisce al valore della pressione atmosferica nel luogo di interesse, mentre con pressione sonora si intende il contributo imputabile alla massa d’aria posta in movimento. Altra cosa importante da dire, la massa d’aria che avvolge la sorgente si muove subendo degli spostamenti che in alternanza interessano pressoché tutte le direzioni e che hanno come posizione di riposo la posizione fisica della sorgente stessa. Nel caso di una sorgente elementare come il diapason, le molecole d’aria che la attorniano subiscono spostamenti ciclici di frequenza ben definita (vedi fig. 2).
Più in particolare, la pressione sonora in una certa posizione non molto distante dal diapason varia nel tempo con legge sinusoidale (vedi fig. 3).
Disponendo in tale posizione un microfono a pressione, la sua uscita, che come si sa è un segnale elettrico, mostrerà, se visualizzato sullo schermo di un oscilloscopio, lo stesso andamento della pressione sonora nel punto in cui le onde sonore incontrano il diaframma del trasduttore. Si dice allora che l’uscita del microfono è un segnale audio analogico perché il suo andamento nel tempo è analogo a quello della suddetta pressione sonora. Se la sorgente sonora, ad esempio uno strumento musicale, produce un suono più complesso del semplice tono puro di un diapason, il discorso è ancora il medesimo, ciò cui si riferisce l’analogia è sempre l’andamento nel tempo della pressione sonora da esso generata, indipendentemente dalla relativa complessità (vedi fig. 4).
In un impianto audio di qualunque genere e tipologia di impiego, il segnale audio gestito da un apparato o trasferito da un’apparecchiatura all’altra sarà da ritenere analogico sinché questa analogia persiste. Quando allora un segnale audio si dice digitale? Semplice, quando varia nel tempo in modo non analogo alla pressione sonora rilevata a una distanza e in una posizione opportune dalla sorgente, ma che ne rappresenta le peculiarità sottoforma di una sequenza di bit, o meglio tramite un segnale elettrico che può assumere un numero limitato di livelli, tipicamente 2, come richiesto dalla numerazione binaria.
Ne parleremo più ampiamente la prossima volta.
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